, , , ,

L'evoluzione delle diete a restrizione glucidica nel diabete di tipo 2: una prospettiva storica per la pratica nutrizionale moderna

L'approccio nutrizionale al diabete di tipo 2 (T2DM) ha subito trasformazioni radicali nel corso della storia, oscillando tra periodi di restrizione glucidica e raccomandazioni per diete ad alto contenuto di carboidrati. Una recente analisi storica pubblicata su Academia Nutrition and Dietetics offre una prospettiva illuminante su questa evoluzione, fornendo ai professionisti della nutrizione strumenti preziosi per comprendere il contesto attuale delle diete low-carb nella gestione del diabete.

Il periodo pre-insulina: le origini della restrizione glucidica

Le prime evidenze di trattamento dietetico del diabete risalgono al papiro di Ebers (1500 a.C.), che paradossalmente raccomandava una dieta ricca di carboidrati. Tuttavia, è nel corso dei secoli successivi che emerge la comprensione del ruolo dei carboidrati nella patogenesi della malattia.

Nel XVII secolo, Thomas Willis introdusse il termine "mellitus" dopo aver scoperto il sapore dolce nelle urine dei pazienti diabetici. Ma è solo nel XVIII secolo che Dobson identificò livelli eccessivi di zucchero nel sangue, attribuendo questa scoperta alla dieta. Questi primi insight posero le basi per la comprensione della relazione tra apporto glucidico e iperglicemia.

Il vero pioniere della restrizione glucidica fu John Rollo nel 1797, che propose una dieta ricca in proteine e grassi, associata a restrizione calorica. Rollo osservò una relazione diretta tra glicosuria e consumo di determinati carboidrati, specialmente quelli presenti nelle verdure amidacee. Questo segna l'inizio della comprensione scientifica della necessità di aumentare grassi e proteine per minimizzare i sintomi diabetici.

La popolarizzazione delle diete a basso contenuto di carboidrati avvenne nella metà del XIX secolo grazie a William Banting e al suo medico William Harvey. Il famoso opuscolo "Letter on Corpulence, addressed to the Public" diffuse l'approccio low-carb non solo per il controllo del peso, ma anche per la gestione del diabete. Harvey aveva appreso questo approccio da Claude Bernard, il primo a dimostrare scientificamente la relazione tra consumo di glucosio e iperglicemia.

Verso la fine del XIX secolo, medici come Cantani e Naunyn descrissero gli effetti del consumo proteico sui livelli di glucosio, raccomandando restrizioni sia di carboidrati che di proteine, con i grassi come principale fonte energetica. Tuttavia, questi approcci spesso risultavano in "diete da fame" con contenuto energetico severamente limitato, portando talvolta alla malnutrizione e persino alla morte.

Nel 1920, Newburgh e Marsh proposero una dieta contenente livelli minimi di proteine e carboidrati, ma iperlipidica, prevenendo così la fame e la morte. Con questa dieta, i pazienti non sperimentavano chetoacidosi o glicosuria, stabilendo un precedente importante per gli approcci nutrizionali moderni.

Il periodo post-insulina (1922-1969): il cambiamento di paradigma

La scoperta dell'insulina esogena nel 1921 segna un punto di svolta nella gestione del diabete. Nel 1934 furono identificati due tipi di diabete basati sulla risposta all'insulina: il diabete insulino-sensibile (tipo 1) e quello insulino-insensibile (tipo 2).

Con l'avvento dell'insulina, il paradigma nutrizionale subì una trasformazione radicale. Nel 1935, Geyelin osservò che pazienti trattati con insulina e diete a basso contenuto di grassi senza restrizione glucidica ottenevano riduzioni della glicemia. La premessa era che, essendo il diabete causato da deficit insulinico, qualsiasi problema metabolico sarebbe stato corretto dall'insulina artificiale.

Le prime raccomandazioni strutturate arrivarono negli anni '40, quando l'American Diabetes Association (ADA) stabilì che i carboidrati dovevano rappresentare il 40% dell'apporto energetico per un migliore controllo glicemico. Nel 1950, la raccomandazione evolse verso una dieta contenente il 43% di carboidrati, 19% di proteine e 37% di grassi.

È importante sottolineare che in questo periodo mancavano metodi pratici per il monitoraggio glicemico. La glicemia veniva raramente misurata, risultando nella mancata riconoscimento dell'influenza delle diete ad alto contenuto di carboidrati sui requisiti insulinici e sui livelli glicemici post-prandiali.

Negli anni '50 emersero i primi agenti ipoglicemizzanti orali, e l'apporto glucidico raccomandato aumentò al 43%. La metformina, farmaco di prima linea per il T2DM, fu introdotta nell'uso clinico in Francia nel 1979 e negli Stati Uniti solo nel 1994.

Un momento cruciale fu il 1958, quando Daughaday, a nome dell'ADA, affrontò l'incertezza dei medici sull'importanza delle diete a restrizione glucidica nel trattamento del diabete. I suoi argomenti includevano il fatto che queste diete rappresentavano uno strumento educativo per i pazienti, potevano prevenire l'uso di insulina nel 40-60% degli individui con diabete, e permettevano di integrare l'apporto glucidico con la somministrazione di insulina.

Il periodo 1970-1993: influenze industriali e crescita dell'obesità

Negli anni '70, l'ADA riconobbe l'importanza della nutrizione nel trattamento del diabete, promuovendo una rivalutazione dei principi di base. Il focus si spostò sul controllo dell'apporto energetico con l'obiettivo di raggiungere una nutrizione adeguata e un peso corporeo ottimale.

Nel 1971, le linee guida ADA misero in discussione la necessità di restringere l'apporto glucidico per la maggior parte degli individui con diabete. Nonostante l'evidenza di lacune conoscitive, le linee guida suggerirono che i carboidrati dovessero rappresentare il 45% o più dell'apporto energetico totale. Contemporaneamente, esisteva preoccupazione riguardo alla relazione tra ipertrigliceridemia e aumento dell'apporto glucidico.

Le Dietary Guidelines for Americans del 1977 proposero di aumentare l'apporto glucidico e ridurre quello di grassi saturi, colesterolo e sale. Tuttavia, le stesse linee guida enfatizzarono la controversia sull'impatto di questi cambiamenti dietetici nella protezione contro malattie fatali.

Nel 1986, la quantità di carboidrati fu "liberalizzata, idealmente rappresentando fino al 55-60% dell'apporto energetico totale". Questo aggiustamento fu fatto non solo per i presunti benefici degli alimenti ricchi di fibre, ma anche per limitare l'apporto di grassi.

Questo periodo fu caratterizzato da successivi aumenti nel contenuto glucidico delle raccomandazioni, influenzate da studi finanziati dall'industria alimentare. Questi studi minimizzarono gli effetti dell'apporto glucidico (specialmente il saccarosio) e sottolinearono grassi e colesterolo come principali cause delle malattie cardiovascolari.

È significativo notare che questo periodo coincise con un aumento della prevalenza di obesità e diabete. L'ADA espresse preoccupazione per l'aumento dell'ipertrigliceridemia, riconoscendo che i livelli di trigliceridi sono sensibili all'aumento dei carboidrati e rappresentano un fattore di rischio per l'aterosclerosi negli individui con diabete.

La fase di individualizzazione (1994-2016): controversie e evidenze emergenti

Nel 1994, l'ADA iniziò a raccomandare cambiamenti dello stile di vita, inclusa l'attività fisica, per il trattamento del T2DM, invece di prescrizioni nutrizionali rigide. Questi cambiamenti potevano aiutare gli individui a raggiungere e mantenere obiettivi terapeutici.

Nel 2000, l'ADA abbandonò target specifici per i carboidrati dietetici, citando una mancanza di evidenze riguardo all'influenza della diminuzione dell'apporto glucidico sul controllo glicemico. Invece, l'Associazione incoraggiò un approccio individualizzato focalizzato sugli aspetti qualitativi dell'alimentazione.

Dati del National Health and Nutrition Examination Surveys mostrarono un aumento significativo dell'apporto glucidico dal 1974 al 2000, rappresentando il principale contributore all'apporto energetico eccessivo negli Stati Uniti. L'apporto glucidico aumentò dal 42% al 49% negli uomini e dal 45% al 52% nelle donne.

Nel 2002, l'ADA affrontò per la prima volta l'indice glicemico (IG), una misura dell'aumento della glicemia causato dal cibo. Tuttavia, già nel 2006 si concluse che il monitoraggio dell'IG avrebbe avuto un beneficio modesto nel trattamento del T2DM, e la strategia fu abbandonata prima che potessero essere condotti studi di follow-up robusti.

L'Institute of Medicine nel 2002 stimò gli Acceptable Macronutrient Distribution Ranges (AMDRs) per la riduzione del rischio di malattie croniche. L'AMDR per i carboidrati fu stabilito al 45-65% dell'apporto energetico totale, con un apporto giornaliero minimo di 130g per gli adulti.

Nel 2004, l'ADA pubblicò una dichiarazione sugli effetti della quantità e tipo di carboidrati sul controllo del diabete, concludendo che le diete a restrizione glucidica non erano indicate per il trattamento del diabete, basandosi sulle conoscenze scientifiche disponibili all'epoca.

Uno studio di Mozaffarian et al. intensificò le discussioni sul "paradosso francese", dimostrando scientificamente che l'intake di grassi saturi da fonti alimentari naturali non era associato con un'aumentata incidenza di malattie cardiovascolari o diabete.

Il ritorno alla restrizione glucidica (2017-presente): evidenze e riconoscimento ufficiale

Le linee guida per il diabete di paesi come Australia, Brasile, Canada, Stati Uniti e Regno Unito continuarono a supportare l'idea che non esiste un rapporto ottimale di macro e micronutrienti per pazienti con T2DM. Tuttavia, fu raccomandato di monitorare il loro consumo per migliorare la gestione glicemica post-prandiale.

Nel 2017, le linee guida cliniche scozzesi per la gestione del diabete incoraggiarono individui con diabete a fare scelte dietetiche mirate alla perdita di peso e miglioramento del controllo glicemico. Queste scelte includevano la limitazione della quantità totale di carboidrati (con un minimo di 50g per promuovere l'aderenza) e la prioritizzazione di fonti alimentari con basso indice glicemico.

Nel 2018, un consenso congiunto ADA/EASD introdusse le diete a restrizione glucidica come opzione terapeutica per il T2DM. Uno dei vantaggi riportati era la mancanza di effetti collaterali. Il consenso ADA del 2019 enfatizzò che ridurre l'apporto totale di carboidrati era la strategia evidence-based più supportata per migliorare il controllo glicemico.

Come argomentato da Dyson et al., studi attuali hanno dimostrato che la quantità e qualità dei carboidrati sono i principali determinanti della risposta glicemica post-prandiale. Le linee guida affermarono che carboidrati consumati sotto forma di zuccheri o amido hanno effetti diversi rispetto a carboidrati minimamente processati consumati con fibre.

Le linee guida canadesi enfatizzarono che carboidrati con basso IG e/o ricchi di fibre possono rappresentare fino al 60% dell'apporto energetico totale, fornendo miglioramenti nel controllo glicemico e lipidico.

Nel 2024, sebbene le linee guida ADA mantennero l'affermazione del 2014 che non esiste una percentuale ideale di calorie da carboidrati, proteine e grassi per persone con diabete, il documento attuale afferma anche che, per persone con T2DM o prediabete, le diete low-carb mostrano potenziale per migliorare la glicemia.

Implicazioni per la pratica nutrizionale moderna

L'analisi storica delle raccomandazioni dietetiche per il T2DM evidenzia la necessità di approcci individualizzati che considerino le evidenze attuali sulle diete a restrizione glucidica. Nella pratica clinica, l'uso di queste diete può rappresentare una strategia valida per migliorare il controllo glicemico, ridurre la dipendenza dai farmaci e promuovere la perdita di peso in pazienti con T2DM.

L'implementazione di queste diete richiede attenzione all'educazione nutrizionale, all'aderenza del paziente e al monitoraggio continuo per evitare carenze nutrizionali o altri effetti avversi. Le rivalutazioni delle linee guida dovrebbero prioritizzare la traduzione delle percentuali di macronutrienti in raccomandazioni dietetiche pratiche e culturalmente appropriate.

Prima della scoperta dell'insulina, le raccomandazioni dietetiche per il diabete erano caratterizzate da diete ipocaloriche, iperlipidiche e a basso contenuto di carboidrati, che, sebbene difficili da seguire, spesso portavano a malnutrizione. Le raccomandazioni iniziarono a rispecchiare quelle per la popolazione generale, aumentando l'apporto glucidico dagli anni '30, e furono successivamente influenzate da studi finanziati dall'industria alimentare.

Lo scenario contemporaneo è caratterizzato da controversie nelle raccomandazioni dietetiche per il T2DM, con diverse organizzazioni che endorsano approcci differenti. Mentre le attuali linee guida riconoscono che non esiste un rapporto ideale di macronutrienti, dal 2017 hanno riconosciuto i potenziali benefici delle diete a basso contenuto di carboidrati per il controllo glicemico nel T2DM.

L'analisi della letteratura rivela la difficoltà nel tradurre le percentuali di nutrienti in raccomandazioni pratiche, poiché le persone mangiano cibo piuttosto che nutrienti. Questo solleva interrogativi sulla perdita delle prospettive del XVIII e XIX secolo, quando individui con diabete dovevano ridurre gli alimenti ricchi di carboidrati, e le verdure erano classificate per contenuto di nutrienti per supportare le raccomandazioni.

 

Link all'articolo: https://www.academia.edu/3067-1345/2/2/10.20935/AcadNutr7689?email_action=download